«La violenza nella cultura» è la parafrasi della corretta traduzione del titolo originale dell’opera di Freud Il disagio della civiltà. Infatti «Das Unglück in der Kultur», che tradotta sarebbe «L’infelicità nella cultura», fu in seguito attenuata in «Unbehagen» cioè «disagio». Tuttavia ritengo che «l’infelicità nella cultura» è maggiormente corrispondente al contenuto del lavoro in cui Freud descrive lo scambio, il baratto che l’uomo civilizzato deve compiere tra la felicità e la sicurezza che sarebbe garantita dalla cultura. Le istituzioni culturali, infatti, dovrebbero provvedere a rassicurare le inquietudini dell’uomo civilizzato circa la sicurezza personale e del proprio gruppo di appartenenza per quanto riguarda la convivenza e gli scambi tra gli uomini. L’uomo rinuncia, secondo Freud, alla pura e semplice scarica delle pulsioni e dei loro derivati per garantirsi una maggiore serenità o possibilità di sopravvivenza nella vita comune con gli altri uomini. L’infelicità o la rinuncia alla felicità deriverebbe esattamente dalla rinuncia della libera espressione dell’aggressività, della sessualità sfrenata, dell’avidità di potere, di tutto ciò insomma che produce distruttività. La cultura con le sue istituzioni si incaricherebbe, sempre secondo Freud, di riconoscere, contenere, trasformare le spinte pulsionali, con mezzi persuasivi o coercitivi, al fine di una maggiore tranquillità nei rapporti tra gli uomini, ma anche al fine di una crescita ed evoluzione della specie. Ma la stessa idea, in fondo viene ripresa da Bion a proposito dei rapporti all’interno del piccolo gruppo come della società, tra il Gruppo di Lavoro, il Gruppo in Assunto di Base, e i Gruppi di Lavoro Specializzati, come la Chiesa, l’Esercito, ecc.: istituzioni, appunto, culturali. La constatazione paradossale e sorprendente è che in questo momento storico della civiltà occidentale, l’antico baratto non funziona più, almeno come prima. Sembra che non basti più rinunciare alla felicità per vivere in pace con gli altri, ma bisogna anche subire la violenza insita nella cultura. Prima accennavo al fatto che la coercizione sia un mezzo a volte necessario per contenere la ricerca della felicità personale a scapito degli altri. Ma la violenza che si riscontra oggi nella cultura è cosa ben diversa. La violenza deriva da un insopportabile senso di impotenza o da puro piacere sadico. Mi sembra che ambedue queste interpretazioni della violenza siano presenti nella cultura attuale.
Il piacere sadico di esercitare la violenza da parte culturale è presente soprattutto nelle componenti culturali dell’arte e dello spettacolo che devono sempre più colpire ed impressionare per potere avere ancora un’attrattiva. Il resto delle istituzioni culturali quali la religione, la politica, la scuola, la giustizia, non ha più una presa sugli uomini un consenso e adesione spontanea per prestigio e fiducia. Per esercitare il loro potere sugli uomini queste istituzioni, sono quasi costrette ad agire violentemente, e più avvertono e temono di perdere potere, più mettono in campo la violenza, non necessariamente soltanto fisica, ma anche psicologica e morale con la colpevolizzazione, con l’emarginazione, con la suggestione, con tutti i mezzi subdoli o sofisticati, mascherati o espliciti, di cui le istituzioni culturali sono capaci e che non consentono difesa alcuna. Eppure molto spesso anche questo tipo di violenza ha un effetto reale fisico. Così l’uomo civile occidentale, non soltanto deve rinunciare alla felicità per potere convivere con gli altri affidandosi alla cultura, ma deve anche sopportare, più o meno passivamente, la violenza derivante dall’ansia propria di cui sono pervasi tutti gli aspetti culturali. Il motivo della perdita di credibilità e di potere della cultura, e di ricercare nell’impensabilità che caratterizza buona parte dei fatti culturali. La cultura ha rinunciato o non riesce più a trasmettere un pensiero contemporaneamente ricco di memoria, di passione, di mitopoiesi, di etica.
Per dare un’evidenza immediata a tutto questo abbiamo scelto di esporre in copertina l’icona di Welby. Infatti grazie alla sensibilità e generosità della signora Welby che è stata d’accordo nel pubblicare la foto del calvario del marito, possiamo dimostrare cos’è la violenza nella cultura. Il «caso» Welby è la massima espressione di questa violenza. La lettera, che qui pubblichiamo, che egli indirizza al Presidente Napolitano, colma di grande sensibilità civica, di rispetto e affidamento alle istituzioni, dimostra la lucidità e dignità di un uomo che vuole decidere di sé e per questo si affida alle istituzioni culturali perché gli riconoscano questo diritto e lo sostengano in questo momento difficile. Ma se la Chiesa, la Magistratura, la Politica rispondono a questa richiesta accampando motivazioni di principio e che non intendono raccogliere il suo bisogno perché comprometterebbe il principio per cui il potere assoluto sull’uomo, sulla sua vita sociale e biologica appartiene non all’individuo ma alle istituzioni culturali; ebbene questa è la massima espressione della violenza nella cultura, per cui l’individuo non solo rinuncia alla felicità ma deve subire la coortazione e la violenza nella sua intimità. Non vogliamo entrare nel merito del dibattito sull’eutanasia, perché riteniamo che ogni posizione di coscienza sia meritevole di rispetto, ma riteniamo anche che in questa delicata e umana questione, le istituzioni culturali, dovrebbero per prime astenersi di imporre decisioni in base a questioni di principio estranei all’intimità dell’uomo e delle relazioni private.
Per di più la risposta violenta a Welby degli esponenti culturali è stata anche ipocrita perché sostanzialmente gli si è rimproverato di rompere l’omertà. In una società in cui è dominante in modo pervasivo l’Assunto di Base di Omertà, come descrivo nel terzo numero di questi quaderni2, una persona disperatamente sofferente come Welby, avrebbe potuto ottenere ciò cui anelava realizzandolo segretamente mantenendone il silenzio, come potrebbe accadere nei reparti di rianimazione degli ospedali e delle cliniche. Welby invece ha voluto offrirci il suo sacrificio esponendosi pubblicamente, rompendo le leggi dell’omertà e richiedendo apertamente il riconoscimento del diritto alla dignità personale e il diritto di non dovere subire la violenza che a volte la cultura esercita.